Curatore/i: Michele Ugolini e Caterina Gallizioli - Politecnico di Milano. Maria Carla Fay e Cristina Pedrana - Centro Documentazione Donegani
Quali punti obbligati intermedi ai due estremi esigano particolari riguardi per non essere trascurati, ma che anzi siavi tutta la convenienza di toccarli con la strada, come sarebbe qualche piccolo villaggio od altro sito in qualche modo abitato, qualche tratta non tanto acclive e sulla quale possa esservi condotto un miglior tratto di strada di più facile costruzione ed uso per cui risulti conveniente di approffittarne, quelle tali località scevre da pericoli di valanghe od altro che puonno ritenersi le più atte per stabilirvi le case Cantoniere e i casini pei lavoratori e rompitori delle nevi; punti tutti essenziali da coltivarsi di maniera che fra gli uni e gli altri di questi vanno a costituirsi tante tratte di studio parziale da tracciarsi e svilupparsi fra i propri singolari estremi.
Carlo Donegani
La mostra “Carlo Donegani Ingegnere. LA STRADA DELLO STELVIO 1820 – 1825. Storia e prospettive di valorizzazione”, rappresenta l’occasione per riportare all’attenzione un grande patrimonio infrastrutturale costruito due secoli fa per ragioni militari. Una strada che assume i contorni del mito fin dalle sue origini per la difficile impresa di affrontare la montagna a quote mai raggiunte prima, sino a lambire la lingua del ghiacciaio all’altezza del giogo dello Stelvio. Per molti anni il più alto passo carrozzabile in Europa. È l’ing. Carlo Donegani a lanciare la “sfida impossibile” con un progetto assai ardito per l’epoca, frutto di competenze tecniche straordinarie, di una accurata conoscenza della montagna in valli impervie, costellate da frane, valanghe e ripidi corsi d’acqua per addentrarsi in quella che era considerata pura wilderness, natura originaria. Un’orografia complessa che Donegani, in soli cinque anni, rileva dettagliatamente e affronta progettualmente e costruttivamente, disegnando una strada dotata di tutte le sue attrezzature che porta sino a completa realizzazione lavorando nei soli mesi estivi. Un approccio dove le piccole misure delle ripetute sezioni trasversali, di rilievo e di progetto, complete delle loro dotazioni architettoniche, tratteggiano puntualmente una relazione con la grande dimensione della valle attraverso lo sviluppo complessivo della corografia d’insieme.
Ma la strada prende vita e dona nuova vita a un ambiente affascinante ma storicamente ostile, dove poche genti osavano passare preferendogli altri e diversi sentieri, divenendo presto attrazione turistica, transito commerciale, luogo di guerre e agguati, di sfide sportive automobilistiche, motociclistiche e in bicicletta arrivando ad acquisire poi il nome di “Cima Coppi” per le imprese eroiche compiute da Fausto Coppi lungo le sue salite.Una complessità di vita che nel tempo ha consumato e trasformato la strada stessa e la sua profonda relazione con il luogo in nome di una maggiore fruibilità carrabile, di nuovi dati tecnici e presunti standard di sicurezza, di un accesso turistico indiscriminato, frutto di un approccio parziale, eterogeneo e segmentato, anche quando animato da generici buoni propositi di valorizzazione. Cosa resta e in che condizioni versa oggi quel patrimonio?
Appare evidente sin da queste prime parole che la strada e la valle con le sue montagne e le sue storie sono una unica e inscindibile entità paesaggistica, ambientale e antropica. È da questa angolazione che ci interessa portare all’attenzione la ricchezza e i rischi che corre tale patrimonio. Un patrimonio che nel progetto dell’ing. Donegani coglieva la sfida della necessità di una concezione unitaria, assumendo la straordinarietà del dato tecnico quale occasione per rileggerlo nel suo valore più ampio di relazione tra intelligenza e fatica dell’uomo a confronto con bellezza e forza della natura.
L’obiettivo finale è, ora, di provare a rileggerne la storia e le condizioni di un’attualità composita e articolata per definire una prospettiva progettuale di valorizzazione complessiva e strategica della strada e della valle. Un grande progetto che assuma di nuovo oggi la sfida che Donegani ebbe il coraggio di affrontare duecento anni fa: quella di restituire una visione d’insieme, unitaria ancorché multidisciplinare. In questo senso effettivamente politecnica.
La mostra si compone di due parti. Una storica che raccoglie una precedente esperienza realizzata dal Centro di Centro di Documentazione Donegani costituitosi all’interno del Liceo Scientifico Carlo Donegani (ora compreso nel Polo Liceale Città di Sondrio). A partire dal 1998 il centro ha acquisito oltre 150 tavole originali (planimetrie, sezioni, profili) relative alla progettazione delle strade dello Stelvio, dello Spluga e dell’Aprica, progettate all’inizio dell’800 dall’ing. Carlo Donegani. Opere che ancora oggi costituiscono il perno del sistema viario di montagna della provincia di Sondrio.
La ricchezza del fondo documentale costituisce la base del “Progetto Donegani”, un programma pluriennale che coinvolge docenti e studenti liceali che negli anni si è variamente modulato per approfondire aspetti progettuali significativi, da contestualizzare con l’apporto della ricerca archivistica.
In questa mostra viene proposta una selezione degli elaborati realizzati da studenti del Liceo Donegani e dell’IIS Alberti di Bormio coordinati da Maria Carla Fay con l’apporto di Cristina Pedrana, studiosa delle vie storiche, sulla strada del Passo dello Stelvio (parte lombarda e atesina); a integrazione, una selezione di pannelli esito del precedente studio dedicato al passo dello Spluga.
Le ricerche hanno condotto ad approfondire opere d’arte, manufatti e tecniche costruttive originarie, permettendo di leggere le scelte progettuali alla luce del contesto storico e geomorfologico. Ne risulta il carattere eccezionale di queste opere, una vera e propria “sfida impossibile” assunta e vinta da Carlo Donegani.
Una seconda parte si compone di un percorso di mappatura e lettura analitica delle attuali condizioni e di scenari progettuali che interpretano consapevolmente la relazione tra piccola e grande misura proponendo una strategia complessiva di valorizzazione della strada e della valle. Un lavoro realizzato tra il 2017 e il 2018 nel Laboratorio finale di terzo anno di Progetto e Arredo degli Spazi Aperti condotto da Michele Ugolini, Caterina Gallizioli e Francesco Occhiuto presso la Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano e svolto in relazione con il Parco Nazionale dello Stelvio di Regione Lombardia concentrandosi nel primo anno sulla valle del Braulio, da Bormio al passo. Per allargarsi successivamente al collegamento laterale con i laghi di Cancano e al vicino passo di Fraele.
Il percorso analitico si suddivide in due fasi, una di conoscenza dei luoghi e dei temi generali, l’altra più esplicitamente dedicata a temi interpretativi di una condizione di stato di fatto che traguarda il progetto. Una strategia progettuale che affronta sinergicamente i diversi temi in una logica d’insieme, non di parti distinte. In quest’ottica i tratti della strada abbandonati e andati in disuso e in rovina nel tempo si legano a porzioni di sentieri che corrono a frammenti lungo la valle per essere progettualmente connessi da nuovi tratti a disegnare un percorso pedonale alternativo da Bormio al passo, percorso oggi non esistente, che gioca e si intreccia nella sua relazione lineare longitudinale con la strada - avvicinandosi e allontanandosi dalle sue strutture: muri di sostegno a secco, ponti riletti dal basso in prospettive inedite, gallerie – piuttosto che con il corso del torrente con le sue cascate, forre e anse che consentono di avvicinarsi all’acqua. Si sostanzia l’idea che la strada e il suo rapporto con la natura della valle rivelino la loro stretta e inscindibile relazione nell’essere visti dall’esterno della strada stessa: “la strada fuori dalla strada.”
La ricognizione sui manufatti abbandonati, non solo quelli più evidenti, Case Cantoniere, manufatti della guerra o le pile di ponti crollati, vecchie dighe parzialmente sommerse ma anche tutti quei residui e frammenti apparentemente meno nobili, rimasti sparsi e seminascosti nel territorio dopo la costruzione delle dighe di Cancano, o frutto di vecchie attività legate alla pastorizia, rivelano potenzialità inedite, occasioni di riconnessione attraverso i sentieri a sistemi più grandi, punti inaspettati di rilettura del paesaggio.
Un ambito montano noto per la sua bellezza naturale come testimoniato dalle belle vedute disegnate dal pittore svizzero J.J. Meyer nel 1831 ma che negli ultimi due secoli è diventato un luogo fortemente infrastrutturato: la strada con i suoi tornanti, le linee dell’alta tensione con i suoi tralicci a interpretare i punti emergenti dell’orografia, il sistema delle condotte idriche che alimentano i laghi di Cancano con le loro dighe e centrali elettriche. Natura, infrastrutture, storia dell’uomo s’intrecciano in un racconto che non può essere separato ma ha bisogno di uno sguardo che raccolga e sveli l’intima natura che li lega indissolubilmente per rilanciarne nuove letture e nuove prospettive progettuali.
MEMORIE SULLE OPERAZIONI PER RILIEVI DI PROGETTI DI STRADE MONTANE[1]
L’ingegnere incaricato del tracciamento di una strada carrozzabile attraverso una elevatissima montagna, comincia dal raccogliere i dati principali di località, cioè:
1.
Quale sia la presumibile elevatezza verticale da vincersi partendo dall’inferior punto obbligato per raggiungere il punto preferibile sulla sommità il quale, per consueto si presenta con qualche depressione al congiungimento delle vallate dominanti nelle quali raccolgonsi le prime fonti derivanti dai scoli delle più elevate ghiacciaie, e che gradatamente ingrossando costituiscono il principio dei due fiumi longitudinali delle opposte vallate.
2.
Quale sia la base presumibile di cadauna vallata o versante su cui è da vincersi l’elevatezza come sopra prossimamente nota, onde conoscere sotto quale acclività in ragione di ogni cento verrebbe essa sviluppata nell’ipotesi di condurre un rettilineo di una sola livelletta, e quindi quale maggiore lunghezza abbisogni nel caso che la suddetta proporzione ecceda il limite che sarà stato stabilito per maximum nel relativo programma.
3.
Quali punti obbligati intermedi ai due estremi esigano particolari riguardi per non essere trascurati, ma che anzi siavi tutta la convenienza di toccarli con la strada, come sarebbe qualche piccolo villaggio od altro sito in qualche modo abitato, qualche tratta non tanto acclive e sulla quale possa esservi condotto un miglior tratto di strada di più facile costruzione ed uso per cui risulti conveniente di approffittarne, quelle tali località scevre da pericoli di valanghe od altro che puonno ritenersi le più atte per stabilirvi le case Cantoniere e i casini pei lavoratori e rompitori delle nevi; punti tutti essenziali da coltivarsi di maniera che fra gli uni e gli altri di questi vanno a costituirsi tante tratte di studio parziale da tracciarsi e svilupparsi fra i propri singolari estremi.
4.
Stabilito quanto sopra, sono da conoscersi le rispettive chine di monte che formano fianchi della vallata, lungo le quali ora su di una ora su dell’altra deve essere tracciata la strada per rilevare con annotazioni le località le più dominate dalle valanghe, onde evitarle possibilmente, ed in particolar modo procurare che il loro attraversamento colla nuova strada non abbia a succedere replicato nel caso che debbasi praticar in vicinanza un qualche andirivieni ossia tourniquets, il che si ottiene collo stabilire il risvolto prima di raggiungere la località pericolosa, e così dopo il risvolto inferiore attraversarla unicamente, mentre in caso diverso portando il tourniquet superiore oltre quella per rivolgersi nuovamente e dovendo ritornare a ripassarla sul seguito della linea, si attraverserebbe tre volte senza scopo.
5.
La scelta dei siti più convenienti pei tourniquets è pure importantissimo soggetto di studio, mentre non è tanto facile di ottenere lungo le chine di monte per se stesse quasi sempre poco inclinate la riduzione di un piano trasversale pel risvolto dal diametro una larghezza che si esige dai metri 14 ai metri 16, non meno, il che porta alle volte il bisogno di aumentare o diminuire alquanto l’acclività del braccio per raggiungere la detta più atta località, e qui cade in acconcio da osservare che nel tracciamento di cadauno dei bracci di strada ripiegati e che discendono in senso opposto della pendenza naturale della vallata, deve essere a questi assegnata una pendenza minore degli altri due che ne discendono a seconda, onde evitare anche l’inganno ottico che succede al confronto degli altri bracci di far comparire questi intermedi in controsenso rivolti quasi doppiamente inclinati; siffatto riguardo deve pure aversi nello stabilire i piani di riposo e segnatamente il piano longitudinale della strada ove attraversa fiumi o valli con Ponti, non trascurando di conservar sui medesimi un’inclinazione progressiva mai minore di un terzo circa di quella che è assegnata alla livelletta stradale da interrompersi in siffatte tratte piane osservando per esperienza che con tale progressiva inclinazione si ottiene al confronto l’ottica apparente di orizzontale, mentre altrimenti stabilendo esse tratte realmente orizzontali come parrebbe doversi esiggere dalla qualità in oggetto, od anche soltanto con pendenza minore della proporzione suaccennata presentano inevitabilmente la deformità di costruzione sbagliata cioè eseguite non orizzontali ma in senso opposto inclinate.
6.
La scelta delle suddette piazzette pei tourniquets ed il numero di essi dipende dall’occhio più esperto dell’operatore onde consumare la pendenza di cadauna tratta col minore possibile allungamento della linea, però quanto basta per lo sviluppo, avendo di mira che alcune tratte meno acclivi della pendenza ordinaria assegnata nel programma, ed anche quasi piane riescano importantissime a scemare la fatica specialmente delle bestie di attiraglio ascendenti procurando quasi sempre nelle strade montane di non far luogo a perdite di salita con piani orizzontali molto estesi che danno come si è osservato l’idea di contropendenza e di evitar poi, per quanto è fattibile le contropendenze positive.
7.
Non si sgomenti l’operatore se colla ricerca che fa della linea col livello sotto quella tale inclinazione che gli è per maximum prescritta, andando ad urtare contro qualche rilevante sporgenza di viva roccia o che trovando variata la china del monte in roccia a picco, si vedesse costretto a dover pensare a dei perforamenti a galleria e non si sgomenti in situ poiché tal genere di lavori oltre che essere ridotto in giornata ai minimi termini del positivo suo dispendio di esecuzione, riunisce il vantaggio di non presentare nessuna opera che esigga in progresso una spesa per la sua conservazione residuandosi in tutto al mero e puro mantenimento della carriera in selciato siccome trovasi pur esse parti coperte il più conveniente. Con siffatti perforamenti i quali risultando quasi generalmente paralleli o poco discosti dall’esterna parete puonno con tutta facilità essere illuminati da frequenti sfori chiamati finestroni, vengono vinte tante difficoltà che a primo colpo d’occhio sembrano insuperabili, e ciò nel modo più ovvio, oltre che si offre al passeggero un saltuario asilo nel caso d’intemperie e scevro da pericoli per qualsiasi altro fortuito avvenimento di scoscendimenti di massi o lavine che sono tanto frequenti nei siti montani.
8.
Siccome tali accidenti inevitabili di roccia a picco da vincersi, siti franosi da evitarsi, siti sceglibili per tourniquet ecc. devono scuoprirsi dall’operatore alla maggiore distanza possibile dal suo lavoro onde regolarsi nel progredire la livellazione collo scopo di raggiungere i primi in punti meno difficili per evitare i secondi con possibili divergenze di linea adottandosi anche se occorre il passaggio dall’una all’altra sponda della vallata e così per approfittare il più che si può dai terzi suddetti e cioè di meglio collocare i tourniquet, Case od altro, riesce assai utile di eseguire la ricerca della linea col livello partendo dall’alto in discesa e non dal basso ascendendo.
9.
Siccome poi coll’operazione di livello che deve servire di traccia pel rilievo consecutivo planimetrico della linea e circostanze laterali, non può sortire che un andamento irregolare che deve poi aggiustarsi con linee migliori riunite con graziate curve sempre pesi nel miglior modo che può permettere l’andamento naturale della china che si percorre, così è d’avvertirsi che le sezioni trasversali che devonsi rilevare a cadauno dei picchetti che servirono di stazioni o scopi al livello, siano estese generalmente d’ambi i lati del picchetto relativo, nel qual modo delineato il profilo del terreno livellato e conosciuta l’irregolarità della linea descritta dalla picchettazione ivi derivante dalla livellazione, risulta ovvio il regolarizzarla come trovasi più confacente colle operazioni di tavolo non mancando in tal modo nessun dato relativo.
Da Giovanni Donegani, Guida allo Stelvio, 1842
NOTIZIE SUL METODO DI LAVORO USATO NELL’ESECUZIONE DELLE GALLERIE PERFORANTI
Si dà particolarmente il nome di galleria a quel perforamento di roccia a volta che nell’esecuzione di un progetto stradale, i consigli dell’arte ed una bene intesa economia suggeriscono di adottare per far scorrere nel suo interno la carriera medesima della strada. Tale lavoro di perforamento che si eseguisce coll’opera dei minatori, abbraccia due distinte parti, cioè il lavoro d’avanzata ed il lavoro di sbancamento a taglio dello strozzo.
Data la sezione di una galleria della larghezza di m. 5 e dell’altezza di m. 5, o vogliam dire della superficie di circa m² 22; l’opera di avanzata si limita al perforamento dei primi m. 2,50 costituenti il raggio della volta, ed in generale al perforamento della volta stessa dalle imposte alla sommità. Il taglio dello strozzo (che così nomasi la restante porzione di roccia dalle imposte al fondo della galleria) forma il lavoro detto di sbancamento.
Nel lavoro d’avanzata, come il più importante, dispendioso e difficile, richiedesi l’impiego di abili minatori. In quello di sbancamento, perché assai più facile, e quasi pareggiabile agli squarci di roccia a cielo scoperto, si adoperano i meno esperti.
Non si principia l’opera di sbancamento se il lavoro d’avanzata non è internato almeno per sei metri di fuga, interessando che lo spazio tra i due lavori sia a sufficienza esteso, e si conservi approssimativamente tale fino al termine del perforamento onde potervi appostare altri minatori.
Il lavoro d’avanzata si eseguisce con mine di poca profondità, applicate in tutti quei sensi che dall’intelligenza del capo minatore sono giudicati i più convenienti alla direzione naturale ed alle circostanze parziali della rocca da forarsi perché la volta della galleria riesca regolare e non oltrepassi le stabilite dimensioni. Il taglio dello strozzo o lo sbancamento si opera a due ritagli o gradini come vedesi nella figura A, ed il materiale proveniente da tutto il lavoro viene di continuo radunato al piede dell’ultimo ritaglio, e quindi trasportato altrove.
Il perforamento di una galleria si suol principiare alle due estremità d’imbocco e sbocco, e continuarlo fino a tanto che le opposte compagnie di minatori si incontrano; avvertendo che allorquando sono fra loro a poca distanza, conviene obbligare a restringere il lavoro, o vogliam dire a farle progredire nel solo centro, e ciò all’oggetto di poter correggere senza grande difficoltà e senza che si renda molto sensibile l’errore che per caso potesse essere nato dal non aver esattamente seguita la linea fondamentale.
In ogni bocca di galleria delle succitate dimensioni non si possono impiegare più di sette coppie di minatori, che tutte unite chiamansi compagnia, dirette sempre da un capo, la cui abilità deve consistere nel saper conoscere l’andamento dei filoni e la qualità della roccia da tagliarsi onde poter giudiziosamente indicare i luoghi d’applicare le mine e la direzione che si deve dare al foro della mina stessa. Quando le gallerie oltrepassano la lunghezza di metri 50 da cadauna parte, alle dette coppie vanno poi annessi due o più giornalieri di servizio a norma del bisogno, e di con tinuo occupati nel trasporto del materiale. A mano a mano però che progredisce il perforamento si aggiunge anche qualche garzone per far lume agli operatori.
Le coppie da minatore sono costituite da due individui, ognuno dei quali a vicenda ora batte, ora tien lo stampo e ben rare volte, e nei soli ritagli, s’accoppia pure un terzo a battere. Tre coppie, e come si disse, le migliori vengono impiegate nell’avanzata, le altre tre si dividono sui ritagli dello strozzo.
Ciò premesso, e supposto che la roccia da perforarsi sia sana, il risultato del lavoro di tutti i suddetti operai, che generalmente è a cottimo, ossia a fattura, in ogni settimana di sei giorni attivi, ben difficilmente può oltrepassare un metro lineare di galleria finita, presa per adeguato la durata del giorno, e ritenuto che il travaglio continuo di ogni compagnia nell’estate non è mai minore di ore dodici, e di ore otto nell’inverno.
Gli strumenti usati dai minatori sono i seguenti:
- Lo stampo
- La draga
- La mazzetta
- Il raspino o spazzetta
- Il martello da mina o piccolo picchia-rocco
- La livera
- La mazza
- Il borone o caricatore
- La bacchetta o gucchia
- Lo stampo è un’asta tonda di ferro inacciaiata alle due estremità, e terminata inferiormente a tagliente sagomato a guisa di scure antica. Le dimensioni degli stampi in lunghezza sono ompresi fra i limiti dai m. 0,30 ai m. 1,25, ed in grossezza dai m. 0,016 ai m. 0,025.
- La draga è parimenti un’asta tonda di ferro, terminata all’estremità inferiore com lo stampo ed è lunga circa m. 1,80, grossa m. 0,025.
- La mazzetta che si adopera per battere lo stampo è un martello di ferro di figura parallelepipeda cogli angoli smussi del peso di circa chilogrammi 3,00, attaccato al quale evvi un manico di legno.
- Il raspino o spazzetta è un’asta di ferro grossa non più di tre millimetri con all’estremità inferiore una specie di cucchiaio tondo del diametro compreso fra i metri 0,012 ai metri 0,020. Ad ogni compagnia di minatori abbisognano due di questi raspini, l’uno lungo circa metri 0,60 e l’altro circa metri 1,30. Tali stromenti servono per levare dai fori delle mine la polvere generata dal lavoro dello stampo e della draga.
- Il martello da mina o piccolo picchia-rocco termina ad una estremità come gli altri martelli e dall’altra con una punta. Il di lui peso non oltrepassa i chilogrammi 1,00 e si adopera per staccare dalle pareti e dalla volta delle gallerie le piccole sporgenze di rocco lasciate per caso dalla mina.
La livera è un’asta tonda di ferro terminata alle due estremità a guisa di scalpello lunga circa metri 1,50 grossa circa metri 0,04 che si adopera per smuovere i grossi macigni.
La mazza che pesa ad un dipresso chiligrammi 5,00 e serve a spaccare i macigni che non si possono smuovere colla livera.
Il borone o caricatore è un’asta di ferro essa pure tonda con piccola scanalatura da un lato nel senso verticale, la quale serve a comprendere la bacchetta. I boroni sono lunghi dai metri 0,60 ai metri 1,00, grossi dai metri 0,012 ai metri 0,020 e anche di questi ce ne vogliono due per compagnia.
La bacchetta o gucchia di ferro è lunga dai metri 0,60 ai metri 1,20, grossa circa millimetri 2. L’estremità superiore termina ad anello e l’inferiore termina in punta. A ciascuna compagnia ne abbisognano due. Si avverte che il ferro costituente tutti i suddetti stromenti è di qualità dura. I fori per le mine si eseguiscono cogli stampi, potendosi approfondirli sino ai metri 1,00 e più. La draga solitamente non s’impiega che in que’ fori verticali che si vogliono internare oltre la comune lunghezza dello stampo. Allorché si adopera la draga essa cessa l’impiego della mazzetta della quale si servono i minatori per battere lo stampo all’oggetto d’approfondirlo nel rocco. Essendo la draga di un peso riflessibile, viene adoperata a quattro braccia per sollevarla e lasciarla cadere a mano a mano nei buchi già opportunamente iniziati dallo stampo. Tanto lo stampo che la draga si accostuma di farli girare ad ogni colpo nel foro affinché questi riesca tondo.
Lo stampo e la draga se non si spezzano per accidente, durano moltissimo, non consumandosi di essi che l’acciajo alle due estremità che colla tempra vien sempre rimesso.
La mazzetta invece a lavoro continuo in una settimana circa non è più adoperabile, per cui bisogna di nuovo farla bollire ed aggiungervi quella quantità di ferro necessaria per renderla presso a poco del primitivo peso. Gli stampi si temperano più o meno a norma della durezza della roccia. Accade alle volte per fare un buco della profondità di soli metri 0,60 di dover mandare dal fabbro anche diciotto o venti volte.Per facilitare l’esecuzione dei fori delle mine, gli operatori dopo averle approfondite per circa due decimetri, accostumano di porvi dentro un poco d’acqua evitando in questo modo che al di sotto dello stampo o della draga si formi la polvere generata dal perforamento che ritarderebbe d’assai il lavoro. L’esperienza poi ha dimostrato che quando la roccia è sana, ogni coppia di minatori impiega circa quattro ore nell’eseguire un foro della profondità poco maggiore di metri 0,60.Spesse volte nell’atto che si pratica un buco da mina, e prima di giungere alla divisata profondità accade d’incontrare uno strato di quarzo, ovvero un così detto Liscione o rocca di natura più compatta della prima, che obbliga lo stampo a deviare dalla sua direzione. In allora, siccome necessita che il foro si conservi sempre dritto, e siccome non vi è rimedio a questo inconveniente, i minatori cessano all’istante dal progredire col lavoro, e si accontentano di caricare e dar fuoco alla sola porzione eseguita. Egualmente sogliono fare quando lo stampo incontra una screpolatura. Compiuti i buchi da mina, uno fra gli esperti minatori si accinge a caricarli. Tale operazione, che richiede molta pratica e diligenza, si eseguisce nel seguente modo.Poco più del primo terzo del foro si riempie di polvere, indi si introduce la bacchetta o gucchia, poscia un piccol strato di creta o carta o teppe, od anche spazzatura asciutta della stessa mina, al di sopra della quale e per quasi tutta la restante altezza del buco vi si pone della sabbia o terra argillosa o rottami coll’avvertenza di batterli e comprimerli bene col borrone, dopo di che di estrae la gucchia e nel foro da essa lasciato si introduce la miccia che è costituita da varie cannette composte da piccolo listelli di carta arrotolati a guisa di cono, sulla superficie dei quali vi è disteso un pastello di polvere sciolta coll’acqua vite o col vino, od anche coll’orina. Alla parte superiore della miccia va unito un pezzo d’esca lungo circa metri 0,12 al quale si applica poi il fuoco. Nel caricare le mine il riguardo che deve avere l’operatore onde evitare la morte, si è di non introdurre la bacchetta sino al fondo della mina stessa, e di osservar bene che non si abbassi nel mentre batte il borone, potendosi ritrovare per accidente all’estremità inferiore del foro una vena di quarzo, o della pietra silicea che sfregata o urtata con qualche veemenza produca all’istante l’esplosione. Lodevol cosa perciò sarebbe se invece della bacchetta di ferro se ne adoperasse una di rame benché più facile a piegarsi, o se almeno i caricatori avessero l’avvertenza di porre nel buco prima della polvere un rotolo di carta o di stracci, ma per loro sventura usano ben poche precauzioni.Nei siti ove sono frequenti le filtrazioni, s’accostuma introdurre nei fori da mina la polvere incartata. Per adeguato si può ritenere che per ogni buco necessuti l’impiego di circa once quattro milanesi di polvere.Non è prefisso il tempo di dar fuoco alle mine. Quando nell’avanzata o nello stampo od anche in ambedue i lavori si sono praticati i necessari fori, allora per non perdere tempo, si caricano e si dà fuoco. Il caricatore numera le esplosioni delle mine per conoscere se tutte sono partite o se qualcuna non prende fuoco, dopo passato il necessario tempo per consumare tutta l’esca attaccata alla miccia, lo stesso caricatore si porta a visitare e ne rinnova il fuoco.
[1]Archivio di Stato Sondrio, AsS Fondo Donegani Bs II fascicolo 5.2 senza data e senza firma. La calligrafia è quella di Carlo Donegani.
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